Al teatro Bonci di Cesena in scena l’ultima rappresentazione teatrale di Marco Tullio Giordana: “Pa’”,…
Lunedì 9 ottobre è stata la ricorrenza del sessantesimo anniversario della tragedia del Vajont e per commemorarla il Teatro Bonci ha aderito, assieme a più di altri cento teatri e compagnie teatrali, al progetto VajontS 23, promosso da Marco Paolini che trent’anni fa raccontò nel suo spettacolo “Il racconto del Vajont”. L’obiettivo del progetto è creare un’azione corale di teatro civile messa in scena contemporaneamente in più di cento teatri in Italia ed Europa.
Al Bonci a vestire i panni di narratori sono stati gli attori Eleonora Giovanardi, Matteo Sintucci e Michele Di Giacomo , quest’ultimo ha curato anche la regia e il coordinamento artistico, accompagnati da un coro di cittadini e cittadine di Cesena. È proprio grazie all’azione corale dei cittadini che il disastro del Vajont raccontato da Paolini riesce a sovrapporsi al ricordo ancora vivido dell’alluvione dello scorso maggio.
Quando si alza il sipario in scena sono già posizionati i gazebo e i tavoli di legno della protezione civile, mentre gli attori posano per terra pale, tira acqua, secchi e il famoso striscione della rotonda dell’ippodromo “non chiamateci angeli del fango ma burdel del paciug”. A vedere tutti quegli oggetti disposti, uniti alle testimonianza in prima persona di chi ha perso la casa, ha riaperto una ferita che ingenuamente credevamo si fosse rimarginata, ci ha fatto realizzare che in realtà che il fango, il “paciug”, ci è rimasto dentro.
La storia della diga del Vajont è quella di una tragedia annunciata. La diga doveva essere la più grande d’Europa e generare energia elettrica da vendere a tutte le industrie venete. A lavori già in corso, si scoprì su una parete del monte che si sarebbe affacciato sul bacino artificiale una frana preistorica che l’acqua del lago avrebbe avuto alte probabilità di risvegliare. Nonostante l’avvertimento del geologo, i pochi dirigenti a capo dell’ente incaricato dei lavori decisero di continuare per la loro strada e proseguirono a riempire il bacino di acqua. Mentre ci si affrettava a collaudare l’impianto ignorando i limiti di sicurezza, la frana iniziava lentamente a muoversi di un numero di centimetri sempre più alto, le scosse di terremoto si facevano sempre più frequenti e la preoccupazione degli abitanti dei paesi limitrofi sempre maggiore.
Il 9 ottobre del 1963 l’intera parete della montagna cade nel lago, travolgendo le tranquille località di Erto e Casso e provocando un’onda alta 250 metri che travolgerà anche Longarone, cittadina situata subito sotto la diga e totalmente ignorata dai progetti di costruzione e messa in sicurezza. In totale ci saranno quasi duemila vittime, di molte non verrà trovato nemmeno il corpo, polverizzato dai detriti provocati dalla frana e lanciati dal vento ad altissima velocità.
Il racconto dei sopravvissuti è molto simile a quello che abbiamo vissuto noi a maggio qui in Romagna, quando per giorni abbiamo visto il fango e l’acqua inghiottire i campi, le case, i ricordi e le vite delle persone. Tutti siamo d’accordo sul fatto che sia stata una catastrofe, ma lo spettacolo suggerisce che forse, come per il Vajont, anche in questo caso la tragedia naturale sia stata amplificata dall’errore umano. Siamo sicuri che il riscaldamento globale, la cementificazione, la cura degli argini non influisca in questi casi?
Al tempo, coloro che provarono a denunciare i dirigenti che scelsero di non rinunciare nemmeno a un metro cubo d’acqua del bacino pur di avere il massimo profitto, invece che pensare di salvaguardare le vite degli abitanti di quei luoghi, vennero zittiti e condannati per diffusione di notizie false.
Oggi cosa possiamo fare, cosa possiamo imparare dalla storia del Vajont e dall’alluvione di maggio?
Oggi tocca a noi fare una scelta, capire cosa salvare, chiederci cosa possiamo fare per il futuro della nostra Terra, per evitare che avvengano sempre più disastri, o almeno mitigarne i danni.
A cosa dare la priorità?
Tutto dipende da cosa si decide di salvare in quei pochi secondi che mancano prima che il fango inghiotti ogni cosa.
Noemi
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