Chi mi conosce sa bene che non è per niente raro che da un giorno…
Molti sono i casi, nell’ambito musicale, di meteore. Dozzine sono i gruppi la cui ascesa è stata tanto rapida quanto la successiva caduta nell’oblio. Di questi finiscono col sopravvivere alle ere sbiaditi ricordi, un ritmo, un jingle, un ritornello. Moltissimi sono fenomeni popolari di musica leggera, che non trovano la loro seconda “hit” e cedono il passo al tempo; altri, di numero di gran lunga più esiguo, lasciano di più: un’idea. Eppure davvero in pochi sono stati capaci di lasciare un solco così profondo quanto quello tracciato dai Bark Psychosis, ed in particolare dal loro Hex.
L’album (rilasciato nel 1994 ad opera della Circa Records) è un’assordante sinfonia di silenzi. Vuoti musicali si intrecciano e si innestano in armonie di delicata ispirazione “talktalkiana”. Ma la band britannica fece più che prendere in prestito sonorità estranee. I Talk Talk vengono assorbiti fino all’immedesimazione, ma l’album non è affatto un’ombra degli anni ottanta che si proietta nel decennio seguente. Gli echi del post-rock e della sua amorfa forma-canzone sono tutt’altro che lontani, e lo stesso vale per le graffianti seppur delicate armonie shoegazer. Il tutto confluisce in un perfetto connubio di psichedelia così rarefatta da perderne quasi i connotati. Da questa forte amalgama di basi si diramano citazionismi di ogni genere, dal minimalismo rileyiano, alle ballate intimiste di Drake e Buckley, con radici che prendono linfa dal dream-pop dei Cocteau Twins e dal filone psich-alternative ottantino dei Galaxy500.
È il lento e cadenzato piano di Gish ad aprire The Loom, da lì la canzone diparte, si dirama e si evolve, ma senza significative rotture, scorre da una melodia all’altra con la disinvoltura di un fiume che scorre lungo i suoi argini. I toni classicheggianti del piano e degli archi che ne costituiscono l’incipit finiscono col disperdersi in un marasma di concitate ritmature, ma mai appaiono denaturati o fuori luogo, nemmeno quando il brano trova il suo epilogo in una inquietante marcia robotica. Surreali chitarre ed una linea di basso senza tempo si mescolano con grazia ad una sessione di fiati delle più malinconiche in A Street Scene, sublimando il sospiroso canto di Garrison. Il climax sonoro si risolve in un (anti)melodia tra lo shoegazer ed il più rarefatto dei noise, per poi consumarsi rapidamente e rallentare inesorabilmente fino alla chiusura del brano. Melodie decisamente più tangibili si contrappongono ad un canto ancora più etereo in Absent Friend; le liriche sussurrate si infrangono solo contro le meravigliose tastiere di Gish che finiscono col prendere il sopravvento e condurre da sole la parte finale della composizione, in un meraviglioso duetto di melodie e feedback, e si dissolvono (facendosi accompagnare da uno xilofono dal sapore settantino e dalle intenzioni minimaliste) lentamente nell’intro di Big Shot. Quest’ultima è forse la traccia più squisitamente psichedelica dell’intero album: poderose ed ipnotiche linee di basso si susseguono sospinte dai riverberi di una chitarra alienante, sul fondo la batteria a scandire un andamento marziale, il tutto circondato da un’ammaliante coro di idiofoni suonati dal vento cosmico che sembra pervadere la composizione.
Ancor più maestosa appare la successiva Fingerspit, un infinito susseguirsi di climax melodici che mai riescono a trovare la loro spannung. Cicli infiniti di creazione e distruzione tra tempeste di accordi distorti di chitarra e bonacce di delicati arpeggi; una batteria che si manifesta in un pianto spezzato, sommesso ma anche incredibilmente furioso; accordi di piano che vagano nella desolazione, pervasi a volte da un’immensa dolcezza ed a volte dalla più vuota delle disperazioni. Tra quest’ultima e la successiva Eyes & Smiles non c’è quasi rottura; la chitarra si attesta su toni più lascivi, le sfuriate compulsive scompaiono e l’atmosfera viene riempita dalla palpitante batteria di Simnett e da un malinconico coro di fiati che tanto ricordano quelli di Rock Bottom (di R. Wyatt) e che per nulla sfigurano al confronto. La voce da omogenea ed eterea si fa tremendamente tangibile e graffiante, dando il la all’outro (“and you gotta go…”) della composizione in un vortice di suoni che si disperde nella quiete più assoluta.
La conclusiva Pendulum Man è l’ennesima perla: un viaggio onirico ed astrale, fatto di silenzi, attese e risvegli. Le chitarre mai si manifestano così eteree, la voce è completamente assente, piano e tastiere si riducono ad un sussurro. Galassie intere si porgono davanti agli occhi dell’ascoltatore, la loro formazione e la loro decadenza, l’attimo di massimo splendore e l’istante in cui scompaiono nel nulla. Ed il leitmotiv dell’album mai appare così sfavillante e limpido: la sensazione è quella di una culla astrale , un’amaca sospesa fra le immense sommità degli spazi intergalattici, ove sembra di poter toccare l’intero universo, che appare a tratti freddo e vuoto ed a tratti pulsante di vita e capace di far comprendere in pochi frammenti d’istante l’armonia dell’infinito.
Recensione a cura di Blank Generation
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