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Kevin Shields, frontman dei My Bloody Valentine


Kevin Shields

ora ha cinquanta anni suonati, ma non ha smesso di stupirci. Tornato in sella alla sua creatura, i My Bloody Valentine, dopo ventidue lunghi anni di vagabondaggi tra gli studi di Primal Scream, Yo La Tengo e Dinosaur jr., ha dato alla luce un disco, l’omonimo “m b v”, che non ha messo d’accordo la critica ma che indubbiamente fa la sua ottima figura nel panorama rock degli anni nostri. Ma c’è stato un momento in cui le chitarre di Shields e soci hanno suonato più forte di adesso. Probabilmente più forte di tutto il resto. Talmente forte che le voci diventavano solo un bisbiglio di sottofondo. Le loro chitarre facevano così tanto baccano da coprire anche le voci di chi gridava al capolavoro.

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Loveless, 1991

Siamo nel 1991. Nel novembre di quell’anno vede la luce Loveless, il manifesto dei My Bloody Valentine. Loveless non è solo uno dei lavori più importanti e originali degli anni 90, ma è uno di quei dischi che lasciano una scia interminabile dietro di sé, aprendo varchi che molti dei più straordinari complessi rock a venire avrebbero cavalcato a dovere (su tutti gli Slowdive ed i più recenti A place to bury strangers) Come tutte le rivoluzioni, quella dei My Bloody Valentine fu soprattutto un’idea: quella di fare rumore con le chitarre. Ma quel rumore non è fine a se stesso: si appiattisce sulla melodia, la copre, ottenendo (paradossalmente) il massimo dalla stessa. La formula, per la verità, era già stata sperimentata con successo dagli scozzesi Jesus and Mary Chain, i quali però erano ancora legati alla forma “canzone”. Nei My Bloody Valentine, invece, questi contorni sfumano verso una trance che non è osato definire trascendente. Il suono diventa un muro ed il resto è meraviglioso contorno. La copertina ne è rappresentazione perfetta: è il rosa il colore che vi evocherà i loro suoni; è la chitarra, suonata con la violenza di una batteria, la protagonista indiscussa.

La domanda all’epoca era: e, adesso, come la definiamo questa musica qui?” La stampa musicale britannica, specializzata in etichette discutibili, affibbiò a quei 4 irlandesi indiavolati l’appellativo di shoegazers, i “fissascarpe”, per la loro abitudine di starsene a capo chino sugli strumenti durante i concerti. Da qui shoegaze, genere musicale che nasce e muore in uno spazio tempo tanto breve quanto intenso. La musica di Shield e soci è psichedelia presa in prestito dai Velvet Underground, è aggressività rumorista ispirata alle deliquie isteriche di Glenn Branca e Sonic Youth; è pop sognante e dolcissimo in stile Cocteau Twins. È esperimento, miracolosamente riuscito, che mescola elementi all’apparenza inconciliabili portandoli alla quasi perfezione. È tutto e il contrario di tutto, insomma. Loveless riassumeva vent’anni di storia del rock ma non somigliava a nient’altro che fosse mai stato prodotto nella storia di questo genere musicale: un macigno di suoni caotici e stratificati che ci culla e ci disorienta, trascinandoci in un viaggio che sa essere infernale e celestiale insieme. È Only Shallow ad aprire le danze. Chitarre, bassi e tastiere ruggiscono fondendosi con il cantato trasognato dalla Butcher. Il leit-motiv del disco è già chiarissimo. Con Loomer e To Here Knows When si rallenta e viene a prevalere l’aspetto onirico, che a tratti tocca il dissonante. Ma l’impennata si ha con la quinta e la sesta traccia: con When You Sleep e I Only Said i ragazzi di Dublino toccano l’apice creativo del disco e forse dell’intera carriera. Qui il rock lamentato rimane sospeso sul frastuono mentre un flauto suona una melodia elementare in un oceano di distorsioni. In Come in Alone il registro non cambia: potenza e psichedelia sono sintetizzate con la consueta maestria. Sometimes è una ballata sommersa, dolcissima, accompagnata dal sussurro di Shields. Blown a Wish e What You Want sono anch’essi pezzi mostruosi ma una citazione particolare la merita Soon, che chiude in bellezza il disco, gettando nel calderone dei suoni anche un pizzico di elettronica.

Come se non bastasse… Loveless è un disco imprescindibile per gli amanti della rock music (occupa la posizione numero 219 nella lista dei 500 migliori album di tutti i tempi secondo Rolling Stone). Un disco meraviglioso, che vi colpirà subito ma che richiederà qualche ascolto in più per essere colto appieno. Una volta assimilato, ripagherà del tempo speso, e ne esigerà naturalmente dell’altro ogni volta che vorrete ascoltare grande musica.

Recensione a cura di Blank Generation

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