Chi mi conosce sa bene che non è per niente raro che da un giorno…
Nel mondo musicale, non è così raro trovare band a conduzione familiare, partendo dai Jackson 5 fino ad arrivare alle più moderne Corrs; e, in questi casi, spesso ci si chiede come la cosa possa influire sul successo rispetto a quanto il reale lavoro meriterebbe. Questi interrogativi potrebbero essere facilmente posti anche per il trio californiano delle Haim, la cui uscita del primo album, Days Are Gone, aveva generato un discreto hype nei mesi precedenti alla sua uscita nel 2013.
La prima cosa che si può notare ascoltando una qualsiasi traccia dell’album sono linee musicali o vocali tutte ben strutturate, solide e molto orecchiabili (la probabilità di ritrovarsi a canticchiarle senza volerlo è decisamente elevata). Su questo aspetto ha avuto sicuramente una certa importanza il padre batterista e la madre cantante: per le 3 sorelle Este, Danielle e Alana è stato naturale cominciare a suonare gli strumenti mancanti (in ordine basso, chitarra e synt) per completare le jam familiari, e per rendere la musica una parte centrale della propria vita: Danielle ha lavorato per anni come turnista, mentre Este è laureata in etnomusicologia.
Il critico musicale Ann Parson ha definito il loro suono come la fusione della Billboard’s Hot 100 Singles del 1987, e sicuramente si possono sentire moltissimi echi di quel decennio, specialmente nel suono riverberato della batteria, effetto che dà al beat un effetto stadio, sull’esempio di Born in The USA di Bruce Springsteen o Wild Boys dei Duran Duran. Inoltre, anche in un ballata come Go Slow sono presenti i suoni “esplosivi” di batteria di In The Air Tonight di Phil Collins.
Non bisogna però assolutamente pensare che l’album, per quanto ben suonato, sia un semplice tributo agli anni 80,anche se può sembrare un confortevole abbandonarsi tra le braccia di mostri sacri come i già citati Springsteen (i cui echi si sentono molto anche nelle performance dal vivo della cantante Danielle), o i Fleetwood Mac, specialmente ascoltando Honey And I. Questa convinzione cade però nel momento in cui si ascolta il funk di If I Could Change Your Mind, il ritornello trascinante di The Wire, o Song 5, che un Justin Timberlake sarebbe stato orgoglioso di scrivere. Si capisce quindi come le ragazze abbiano talento, e l’esperienza musicale necessaria per evitare cadute sui pezzi più “scivolosi”: probabilmente tra qualche anno ci saremo dimenticati di loro, ma ciò non toglie che Days Are Gone rimane uno dei migliori album pop usciti negli ultimi anni.
Recensione a cura di Leonardo Franceschelli
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