Ci sono casi di album che arrivano ad assaporare la gloria ancor prima di essere pubblicati ed altri che, più sfortunati (o forse il contrario?), per quanto meravigliosi e fulgidi esempi d’arte, sono destinati, si voglia per la natura estrosa ed il carattere peculiare dell’opera oppure per vicissitudini di natura più banalmente circostanziale, a mirare il passaggio dei lustri circondati da un inestricabile alone di mistero.

  1. Viene pubblicato un album a nome degli Aphrodite’s Child, gruppo greco che si era fatto già conoscere negli anni precedenti nelle radio europee per vari successi “pop-oriented”. L’album in questione, 666, era però profondamente diverso. Il doppio (il cui titolo completo era 666 –The Apocalypse of John, 13/18) risultava essere una sorta di concept album incentrato sull’apocalisse di Giovanni, in costante sospensione tra bene e male, santità ed empietà , salvezza e perdizione, paradiso ed inferno.

L’album era, di fatto, postumo (all’epoca della pubblicazione il gruppo era ormai sciolto) e poteva considerarsi a tutti gli effetti il primo lavoro da solista del tastierista/compositore Vangelis (nome d’arte di Evangelos Odysseas Papathanassiou). Già ultimato nel ’70, dovrà aspettare 2 interi anni prima di essere finalmente pubblicato dalla Vertigo e solo un paio di tracce (su un numero totale di 26) riusciranno a ottenere le luci della ribalta come hit radiofoniche.

L’album si apre con il breve intro The System, coro in crescendo di sole voci maschili e femminili che si limita a ripetere ad oltranza “We got the system to fuck the system” (gioco di parole palesemente ironico e probabilmente riferito al manifesto Yippie di Abbie Hoffmann). Il coro culmina nel riff di Babylon, incalzante sfuriata ai margini dell’hard rock. Segue la lenta e speranzosa preghiera per piano e voce femminile “Loud, loud, loud”. Un etereo e lontano scampanellio apre a “Four Horsemen”, paradisiaca ballata che con fascinato timore mostra i cavalieri dell’apocalisse venir fuori dai cancelli degli inferi, culminante in una dionisiaca jam tra il blues-rock e la psichedelica.

Il primo ed unico album realizzato per Aphrodite's Child
Il primo ed unico album realizzato per Aphrodite’s Child

L’etnia ellenica del gruppo appare limpida nella successiva “The

Lamb”, mistica elegia dai toni orientaleggianti per tastiere e mandolino. Seguono le cerimoniose “Seventh Seal” e “Aegian Sea”, dove lo stesso verso biblico è recitato, nella prima, ed impegnato, nella seconda, in una danza funerea dai toni mesti e solenni con la lead guitar. La nenia profetica di “Seventh bowls”, gli idiofoni che tanto più appaiono come cocci in frantumi in “The Wakening Beast” e l’esasperato ed etereo canto di Demis Roussos in “Lament”, sì mortale quanto senza tempo, tornano a dipingere paesaggi colmi di desolazione e privi di speranza.

Dopo la caotica “The Marching Beast” e l’esasperato e selvaggio free-jazz de “The Battle of The Locust”, al “Do It” di vangelis la batteria si lancia in una sfrenata ed inarrestabile corsa contro il tempo ove una lead guitar si getta immediatamente al folle quanto disperato inseguimento. L’aggrovigliarsi ed il distendersi dei due suoni si risolve in un maestoso duetto sospeso tra hard-rock e free-jazz. Alla breve e cacofonica “Tribulation” per soli fiati e legni, segue la più goliardica “The Beast”. Il primo disco è chiuso dai versi presi dal Karagiozis e recitati dal pittore greco Yiannis Tsarouchis in “Ofis”.

A presentare il secondo disco è l’ammiccante “Seven Trumpets” il cui conclusivo “…ed ora la musica cambia” è decisamente profetico. La traccia si risolve nella zappiana “Altamont”, ove gorgheggi orchestrali vengono armonizzati da una voce che, sola, detta il tempo al caos della composizione, che va risolvendosi in miscuglio tra lo psych ed il minimalista. Il passaggio alla successiva “The wedding of the lamb” è praticamente privo di soluzioni di continuità, ma in quest’ultima il marasma strumentale della precedente viene abbandonato in favore di un più asfissiante soliloquio di tastiere, con il resto della strumentazione a far da cornice. La traccia è chiusa dalla voce dello stesso Vangelis, che va poi ad introdurre la cupa “The capture of the beast”, governata da percussioni, che oscillano tra il marziale ed il tribale, ed idiofoni alla stregua di vetri in frantumi.

“Infinity Symbol” è una disperata e delirante suite per sole percussioni e voce femminile, prestata, per l’occasione, da Irene Papas. La voce dell’attrice vaga per lande di perdizione passando in continuazione da urla disperate, a gorgheggi alienanti, a sussurri inquietanti, ad affannosi sospiri ed ancora da grida furiose ad acuti febbrili ed a vaneggiamenti lussuriosi in un’intensa atmosfera orgasmica, riprendendo il leitmotiv di sospensione tra diabolico e divino dell’album e ripetendo per l’intera durata del brano il solo verso “I was, I am, I am to come” di chiaro riferimento biblico. Trentanove furono i minuti di asfissiante e continua registrazione che trascinarono l’attrice a tali livelli di perdizione, cinque, i più saturi d’estasi, quelli che fluirono nell’album. La successiva “Hic and Nunc” (nomen omen) riporta il tutto su temi più mortali, tangibili, umani, ed il suo tono tra la music hall e il burlesque dona riposo alle membra ancora irrigidite dal carico estatico della precedente composizione.

Il susseguirsi di brani tanto variegati quanto eccezionali non può che trovare la sua spannung nella meravigliosa suite “all the seats were occupied”, che si configura come uno dei più notevoli esempi di ensemble psichedelica degli anni ’70. Sulla meravigliosa composizione troneggiano i campionamenti di praticamente tutti i brani che si sono susseguiti in precedenza, in una maniera che tanto richiama alla memoria “The American Way of Love, Part I-III” dall’omonimo album degli United States of America. Ma se tale trucco discografico nell’opera dello statunitense Joseph Byrd serve i fini della psichedelica, qui si carica di un respiro persino più ampio. Vangelis sembra raccogliere, in una sorta di Clavicula Salomonis dei nostri tempi, tutti i sortilegi ed i malefici pronunciati ed al contempo rievocarli per dar loro ancor più efficacia.

L’opera summa del compositore greco poteva configurarsi come una perfetta conclusione di questo magnifico album, ma Vangelis decide di apporre l’outro “Break”, la cui cadenza, nostalgica e sognante, sembra riaccompagnare l’ascoltatore verso casa dall’etereo percorso appena compiutosi. Ed ancor più l’album appare a questo punto come un viaggio più che tra le inesplicabili forze che regolano l’universo, piuttosto tra gli ancor più inesplicabili sentimenti che regolano l’animo umano; un viaggio che, tra l’intenzione religiosa dantesca ed il profetismo assuefatto di Blake, pone l’accento, in realtà, su quelle che sono le ragioni che muovono l’essere umano.


Recensione a cura di Alessandro Anacreonte (Blank Generation)

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