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Il 1° marzo 1989 in Islanda è ricordato come il giorno della legalizzazione della birra, che ha posto fine a un proibizionismo dalla durata eccezionale.
Leggendo un romanzo islandese (Grande come l’universo, Iperborea 2016), mi sono imbattuta in un fatto che mi ha incuriosita: in Islanda la birra è stata considerata una bevanda illegale dal 1915 al 1989. Mi ha stupita soprattutto la durata anomala del fenomeno, in una terra colonizzata da genti vichinghe, non certo famose per l’astenersi dal bere alcolici.
Furono proprio questi sconsiderati discendenti a decidere di proibire ogni tipo di bevanda alcolica, sotto l’influenza del Temperance movement, movimento contro il consumo di alcolici. Durante un referendum, il sì al divieto vinse con una schiacciante maggioranza (60,1 %), entrando in vigore come legge nel 1915.
Tuttavia non ci volle molto affinché il proibizionismo venisse minacciato. Giocarono una parte importante il contrabbando, la fabbricazione casalinga e gli ambasciatori, che utilizzavano l’alcol come mezzo per oliare gli ingranaggi della diplomazia.
Come riferisce lo storico Stefan Palsson, in un articolo della BBC,
i difensori del divieto lamentavano il fatto che i pittori che non avevano mai utilizzato fino a quel momento l’alcol per pulire i loro pennelli adesso se ne procuravano litri e litri ogni anno.
Arrivarono poi gli spagnoli a minacciare di bloccare l’importazione di pesce essiccato — al tempo la voce di maggior rilievo nell’export islandese. I politici furono quindi praticamente costretti a legalizzare, nel 1921, i vini provenienti da Spagna e Portogallo.
La situazione si ammorbidì ulteriormente dopo un secondo referendum, grazie al quale nel 1935 vennero legalizzati i liquori assieme alla birra a basso contenuto alcolico (2,25 %). Le forze politiche dominanti argomentavano che essendo la birra più economica dei superalcolici, essa avrebbe portato a un notevole aumento nell’abuso di alcol: “Gli islandesi non sanno far uso degli alcolici in modo civilizzato, sono ancora troppo Vichinghi per natura…”
Inoltre bisogna sottolineare che la birra non era considerata una bevanda patriottica, dal momento che veniva associata alla Danimarca, dalla quale proprio in quegli anni l’Islanda stava cercando di ottenere l’indipendenza (che fu pienamente raggiunta solo nel 1944).
Tuttavia, la bevanda dorata rimase per tutto questo periodo comunque accessibile a chi voleva procurarsela: i pescatori avevano sempre qualche cassa di birra nascosta in garage. Nei bar era largamente venduto un miscuglio (bjorliki) di birra leggera e superalcolici come il Brennivín, tipico distillato islandese.
Come spiega Helgi Gunnlaugsson, professore di sociologia alla Háskóli Íslands, vi furono continui tentativi di riforma del divieto, che si susseguirono per tutta la durata del proibizionismo. È solo negli anni Settanta però, con l’aumento delle vacanze all’estero, che iniziarono i primi veri cambiamenti nei modi di pensare della popolazione: la vita in città come Londra esercitava un’attrattiva molto forte, e il desidero di replicarla in patria diventava naturale.
Un’altra crepa nell’edificio del proibizionismo si formò nel 1979, quando David Scheving Thorsteinsson sfidò la regola che permetteva solamente a piloti, membri dell’equipaggio di volo e turisti stranieri di importare birra dal duty-free. Quando gli vennero sequestrate sei bottiglie, si rifiutò di pagare la multa, e finì in tribunale. Fu supportato da un membro del Parlamento, che successivamente riuscì a ottenere, nel 1980, gli stessi diritti anche per gli islandesi (sei litri di birra importata, o otto di birra locale).
Finalmente, nel 1988 l’Althing, il Parlamento islandese, votò a favore della legalizzazione della birra. Ancora oggi il 1° marzo si festeggia il Bjordagur (Beer Day), ma a quanto pare in modo molto più tranquillo rispetto a trent’anni fa, e di quanto vogliano far credere ai turisti.
Giulia Renda
Minibiblio:
L’articolo della BBC, dal quale ho largamente tradotto: http://www.bbc.com/news/magazine-31622038 <visitato il 27/01/2018>.
L’articolo di una ragazza tedesca, che vive e lavora a Reykjavík, con un approfondimento sui birrifici islandesi: https://wsimag.com/food-and-wine/6257-beer-in-iceland <visitato il 27/01/2018>.
Studio sociologico del fenomeno: H. Gunnlaugsson, An Extreme Case of Lifestyle Regulation: the Prohibition of Beer in Iceland 1915-1989, «A Welfare Policy Patchwork», a cura di M. Hellman – G. Roos – J. von Wright, Helsinki 2012, pp. 259-275.
Un articolo del New York Times un anno prima della legalizzazione: http://www.nytimes.com/1988/05/11/world/beer-soon-for-icelanders.html <visitato il 27/01/2018>.
L’articolo di una rivista islandese, grazie a Odino disponibile in inglese: https://grapevine.is/news/2016/03/01/iceland-27-years-of-legal-beer/ <visitato il 27/01/2018>.
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