“C’è speranza, e ce n’è tanta nell’alto dei cieli e nelle viscere della terra.
C’è speranza e la cantiamo, disperati, con i nostri corpi imperfetti e le corde vocali attorcigliate”.

C’è chi cerca la colonna sonora perfetta per questo o quel momento. Vuole la musica come vuole lo zucchero nel caffè o il burro sulle fette biscottate al mattino.
Ma certa musica non si accontenta di essere di accompagnamento. Certa musica diventa vita essa stessa, ed inizia ad insegnarti, senza parlare, solo raccontando se stessa, con disarmante sincerità.

In poco più di un’ora, i Godspeed You! Black Emperor, da Montreal, riescono nell’impresa di tradurre in suoni tutta o quasi la tavolozza delle emozioni umane, fotografando l’anima del mondo nel suo incessante e sconnesso dimenarsi. Scappano via, lontanissimi dalla realtà tangibile, per creare un unico e totalizzante universo emotivo, privo di forma e raziocinio, ma che solamente fluisce, scorre, va.

Godspeed You! Black Emperor, gruppo di Montreal attivo dal 1994
Godspeed You! Black Emperor, gruppo di Montreal attivo dal 1994

È il 2000 quando l’ensemble canadese dà alla luce questo monumentale doppio, in quattro episodi della durata di circa 20 minuti ciascuno; 4 capitoli di un viaggio che non conosce destinazione nè sosta. 11 i musicisti all’opera: 2 bassi, 3 chitarre elettriche, 2 batterie, un violino, un violoncello, 2 corni.

Troppo semplicistico bollare come “post-rock” un lavoro così complesso e inafferrabile. Un lavoro dalla folle ambizione, che si presenta come un’ardita fusion tra psichedelia e avanguardismo, tra ambient e rumorismo, tra musica classica e progressive. La pretesa onnicomprensività (musicale ed espressiva) dell’opera è, a parere di chi scrive, non una mera esercitazione di stile o una sperimentazione fine a sè stessa, ma la necessaria premessa per giungere ad un affresco musicale di tali proporzioni. Perché parliamo forse di uno dei vertici assoluti della musica “rock” del nuovo millennio.

L’iniziale “Storm” si apre con dolcissimi arpeggi di chitarra che danzano sulla melodia dei corni. Il ritmo si fa sempre più veloce, le visioni sono sempre più estasianti. Ma nulla è destinato a durare in questo disco: l’iniziale sensazione di riavvicinarsi lentamente al suolo dopo un viaggio in alta quota improvvisamente si trasforma in un lancio senza paracadute nel cratere di un vulcano. Le chitarre cominciano a non suonare (come nelle migliori lezioni di Glenn Branca) mentre gli archi gracchiano e, più dietro le quinte, ossessive percussioni scandiscono qualcosa di simile a una marcia funebre. Un attimo di silenzio e siamo svegli, si sente un voce proveniente da una radio, in sottofondo il rumore di un auto che parte. Probabilmente l’incubo è finito, ma forse si sta peggio di prima, ed a ricordarcelo c’è un pianoforte, che suona svogliato e malinconico.

Copertina dell’album “Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven” pubblicato il 9 ottobre del 2000.

“Static” porta con sé un carico di droni, dentro un’inerzia narrativa solo momentanea ed apparente. Siamo dunque pronti ad accogliere il dramma che si consuma al minuto 4, quando un violino sinistro, ergendosi a voce dell’angoscia esistenziale, inizia ad accompagnare deliranti declamazioni religioso/nichiliste di una voce in sottofondo (“E quando penetri fino all’altissimo Dio / Credi di essere pazzo / Credi di avere perso il senno / Ma vi dico questo: se seguirete la finestra segreta / Se morirete alla natura del vostro ego / Penetrerete questa oscurità / Oh sì, ci sono molti uomini e donne / Che sono stati rinchiusi in manicomio / Dopo aver compiuto questo passo / E sono ancora lì oggi, la gente li considera pazzi/ Ma hanno visto qualcosa di vero”).

L’atmosfera è ancora traboccante di inquietudine: gli archi tracciano traiettorie schizofreniche mentre i rintocchi di una tastiera provano ad esorcizzare i demoni. È il preludio ad una rabbiosa cavalcata elettrica in stile Dirty Three, che culmina in un’epiliettica orgia di feedback. Lentamente si ri-scivola in un silenzio inquinato da echi e rumori.

“Sleep” inaugura una fase del disco forse meno sofferta ed ostica e più trasognata. In apertura, un anziano racconta nostalgicamente della sua infanzia a Coney Island mentre una dolce melodia spiana la strada all’ennesima maestosa esplosione strumentale in stile Mogwai. Sul finale gli strumenti sembrano miracolosamente suonare insieme e, forse per la prima volta, in questo spartito di disperazione del nuovo millennio, sembra scorgersi un briciolo di speranza.

Il metodo compositivo della conclusiva “Like antennas to heaven” è il medesimo: anche qui  il flusso emotivo è straordinariamente fluido, in un sali-scendi ritmico che ricorda da vicino i primissimi Sigur Ros e i loro amplissimi paesaggi nordici.

“Lift your skinny fists like antennas to heaven” è un album indecifrabile almeno quanto i componenti del gruppo, i quali, notoriamente, non rilasciano interviste, non ritirano premi, non promuovono campagne pubblicitarie per i loro dischi. Esso rappresenta il miglior seguito possibile alla loro prima fatica (f#a#infinity), la quale già lasciava intuire il talento ed il coraggio pressochè sconfinati di questo gruppetto di schivi ragazzi canadesi.

E allora non ci resta che provare ad “alzare i nostri pugni come antenne verso il cielo” e provare ad intercettare…

 Recensione a cura di Blank Generation

 

 

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